Le ragioni difensive assunte dallo Studio Legale Di Stasio, con l’avv. Maria Giovanna Icolaro, in favore della propria Assistita, convenuta in giudizio dall’ex coniuge che pretendeva il pagamento della non irrisoria cifra di oltre trecentoventimila euro, sono state pienamente condivise dal Giudice del Lavoro del Tribunale di Nocera Inferiore che ha rigettato integralmente la domanda proposta dal ricorrente.

Più specificamente, il ricorrente pretendeva che l’opera da lui prestata nell’attività commerciale di famiglia fosse riconosciuta come lavoro svolto alle dipendenze della ex moglie, intestataria della ditta individuale, avendo egli dedotto di aver espletato mansioni di addetto agli acquisti e alle vendite, riconducibili a quelle di un impiegato di III livello del ccnl commercio, per otto ore al giorno sei giorni alla settimana. In quanto socio-collaboratore dell’impresa familiare ovvero quale lavoratore dipendente, chiedeva, quindi, al giudice del lavoro adito di condannare la controparte al pagamento in suo favore della complessiva somma di € 320.401,44.

Tuttavia il Giudice del Lavoro ha escluso, sulla base delle risultanze istruttorie emerse in corso di causa, che fosse configurabile, nel caso specifico, alcuna subordinazione nel rapporto di lavoro dedotto in giudizio non essendo stato provato dal ricorrente l’assoggettamento al potere direttivo e disciplinare richiesto all’art. 2094 c.c. per la configurabilità del rapporto di “dipendenza” tra prestatore e datore di lavoro.

Il Giudice del Lavoro ha altresì escluso che l’opera prestata dal ricorrente potesse configurarsi come lavoro svolto nell’ambito dell’impresa familiare.

In argomento, conformemente all’insegnamento della Suprema Corte, il Giudice del Lavoro ha ritenuto che “ai fini del riconoscimento dell’istituto – residuale – dell’impresa familiare, è necessario che ricorrano due condizioni e cioè che venga fornita la prova sia dello svolgimento da parte del partecipante, di un’attività di lavoro continuativa (nel senso di attività non saltuaria, ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno) sia dell’accrescimento della produttività dell’impresa procurato dal lavoro del partecipante (necessaria per determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi)”.

Nel caso di specie, invece, (ndr continua il Decidente) “non solo residuano legittimi dubbi in merito alla regolarità dell’apporto lavorativo del ricorrente all’impresa, ma la domanda è priva di ogni tipo di deduzione o allegazione in ordine alla dimensione qualitativa e quantitativa della prestazione del ricorrente sotto il profilo dell’accrescimento della produttività dell’impresa, che, in ogni caso, si sarebbe dovuta tratteggiare con riferimento alla partecipazione proporzionale agli utili e non, come invece fatto dal ricorrente, secondo i compensi retributivi di un lavoratore subordinato”.

Di qui il rigetto integrale della domanda e la condanna al pagamento delle spese processuali secondo il principio di soccombenza.