26 Set, 2023

L’avv. Valerio Di Stasio ha presieduto la riunione di inizio stagione sportiva della Commissione Esperti legali dell’AIA.

Di |2023-09-26T19:36:07+02:0026 Settembre 2023|Categorie: News|

La riunione, tenutasi a Roma nei giorni del 22 e 23 settembre scorsi, ha visto la partecipazione di tutti i Componenti della commissione e di un parterre di ospiti d’eccezione.

 

Si è tenuta a Roma, nei giorni del 22 e 23 settembre scorsi, la riunione di inizio stagione sportiva della Commissione Esperti Legali dell’Associazione Italiana Arbitri (composta da avvocati, magistrati e professori universitari).

Ha presieduto i lavori l’avv. Valerio Di Stasio, nella sua qualità di Responsabile Nazionale della detta Commissione.

 

Si è trattato di una due giorni intensa e proficua, durante la quale sono stati affrontati temi di notevole interesse e di stretta attualità, a partire dalla recente Riforma dello Sport, con particolare riferimento agli aspetti giuslavoristici e ai conseguenti riflessi sull’attività svolta dagli arbitri di calcio.

I lavori si sono, poi, concentrati sulla tematica del contrasto alla violenza nei confronti degli ufficiali di gara, analizzando i dati delle attività in corso e sviscerando tutte le problematiche emerse, nelle varie regioni, durante la passata stagione sportiva.

Ampio spazio è stato, infine, dedicato alla programmazione delle attività ed iniziative da porre in essere nella stagione sportiva appena iniziata.

La partecipazione di un parterre di ospiti d’eccezione ha arricchito di interesse e contenuti i lavori della Commissione.

Infatti, nel corso delle sessioni svolte durante i due giorni, sono intervenuti il Presidente dell’AIA Carlo Pacifici, il Componente del Comitato Nazionale Antonio Zappi e il Responsabile della Commissione per lo Studio, lo Sviluppo ed il monitoraggio dei progetti associativi e per il contrasto alla violenza Alfredo Trentalange.

 

Al termine della riunione, alla quale ha preso parte anche l’avv. Vincenzo D’Amore quale Referente Regionale della Campania, l’avv. Di Stasio ha espresso tutta la propria soddisfazione per i contenuti emersi e per il ruolo di rilievo assunto dalla Commissione Esperti Legali all’interno dell’AIA.

19 Lug, 2023

DANNO DA DEPRIVAZIONE PARENTALE E DECORRENZA DELLA PRESCRIZIONE

Di |2023-07-19T18:42:34+02:0019 Luglio 2023|Categorie: Diritto di famiglia, Diritto penale, Lo Studio, News|Tag: , , , , |

La Carta Costituzionale, negli articoli 2 e 30, nonché le norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento, riconoscono e tutelano tutti quei diritti nascenti dal rapporto di filiazione, la cui condotta posta in essere dal genitore, relativa alla violazione degli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione, ne costituisce una completa sovversione unitamente alla produzione di un’insanabile ferita e danno nei confronti del figlio, così – consapevolmente o inconsapevolmente – danneggiato.

Si parla, infatti, di abbandono parentale che consiste proprio nel mancato adempimento di tutti gli obblighi che il genitore assume nei confronti della prole, concretizzata nella completa e totale assenza del genitore nella vita filiale, fondante un papabile esempio di illecito omissivo di carattere permanente.

Da qui, è opportuno rilevare che l’illecito endofamiliare è dato da una serie di comportamenti omissivi protratti nel tempo, non può riferirsi ad un solo atto fine a sé stesso ed isolato, poiché costituisce una fattispecie complessa ed a formazione progressiva proveniente da un comportamento omissivo volontario, posto in essere dal genitore, che prosegue senza interruzione, ed è solo il genitore-autore stesso a decidere se ed in quale momento porre fine a siffatta situazione dannosa per il proprio figlio.

Detto illecito, quindi, è suscettibile di interruzione solo per una radicale modificazione dell’atteggiamento genitoriale in riferimento – dunque – all’adempimento concreto degli obblighi nei riguardi della prole.

La problematica affrontata dalla Suprema Corte di Cassazione, attraverso la sentenza n. 9930 del 13.4.2023, inerisce l’individuazione del dies a quo della prescrizione del danno da deprivazione parentale, quale illecito permanente.

Infatti, prendendo a fondamento i principi affermati già precedentemente dalla medesima Corte di Cassazione con le sentenze n. 11097/2020 e n. 40335/2020, nella considerazione che nell’illecito permanente la condotta perdura oltre il momento della produzione del danno e lo cagiona per tutto il corso della sua durata, la Corte offre una visione di natura soggettiva – in contrapposizione con quella di natura oggettiva – secondo cui il dies a quo della prescrizione si debba necessariamente rapportare ad una piena comprensione delle ragioni che giustificano l’attività della vittima rispetto all’effettivo e concreto esercizio dei suoi diritti.

Tanto, in considerazione del fatto che il figlio, ossia la vittima, potrebbe trovarsi in una condizione psichica per cui non risulti esser in grado di percepire quell’istintivo desiderio filiale di un rapporto positivo col proprio genitore, di conseguenza potrebbe non esser nelle condizioni di carpire la reale situazione a sé pregiudizievole e – quindi – di assumere reattive decisioni nell’esercizio di quelli che sono i suoi diritti di figlio, abbandonati ed inadempiuti dal genitore.

Per meglio comprendere ciò, è opportuno specificare che questo particolare tipo di illecito, qual è quello endofamiliare, produce anche un danno non patrimoniale, di tipo psicologico-esistenziale, poiché condiziona la formazione della personalità del danneggiato, nonché lo sviluppo delle sue capacità di comprensione, di difesa e di relazione, condizionando il suo percorso di vita.

Dunque, non ci si deve limitare ad una superficiale disamina dell’evolversi nel tempo di quelle che sono le conseguenze lesive scaturenti dal fatto illecito o dall’inadempimento del genitore, ma è necessario verificare la concomitante sussistenza della percezione di quei comportamenti illeciti ed inadempienti da parte del danneggiato stesso.

Proprio la percepibilità e la conoscenza delle devastanti e, talvolta, irrimediabili conseguenze affettive dell’abbandono, del disamore e del disinteresse, da parte del danneggiato, quale particolare caratteristica del suddetto illecito endofamiliare incide sella valutazione del dies a quo prescrizionale.

Pertanto, l’errore in cui si può incorrere per tale valutazione, è quello di non considerare che l’illecito può dirsi cessato solo laddove si accerti che la condotta abbandonica sia venuta meno per effetto di un pieno e consapevole recupero del rapporto col figlio, o laddove il genitore dimostri di non aver potuto porre fine alla condotta omissiva per causa a lui non imputabile.

Di conseguenza, ignorando questi aspetti, si incorre in errore nella determinazione del termine prescrizionale.

12 Lug, 2023

LE NUOVE NOMINE DELLA COMMISSIONE ESPERTI LEGALI DELL’AIA

Di |2023-07-12T13:07:23+02:0012 Luglio 2023|Categorie: News|

L’avv. Valerio Di Stasio sarà il Responsabile nazionale della Commissione Esperti Legali dell’Associazione Italiana Arbitri anche per il biennio 2023 – 2025.
L’Avv. Vincenzo D’Amore confermato quale Referente regionale per la Campania della medesima commissione.

Nella giornata di ieri, il Comitato Nazionale dell’Associazione Italiana Arbitri ha ufficializzato le nuove nomine tecniche ed associative.

Per quanto riguarda la Commissione Esperti Legali, è stata rinnovata la fiducia all’avv. Valerio Di Stasio che sarà il Responsabile nazionale della detta commissione anche per le stagioni sportive 2023/2024 e 2024/2025.

Si tratta di un prestigioso riconoscimento, da parte del Comitato Nazionale dell’AIA, per il lavoro svolto negli anni addietro e, in particolare, nell’ultimo biennio in cui la Commissione Esperti Legali presieduta dall’avv. Di Stasio è stata particolarmente impegnata e con pregevoli risultati, sotto diversi profili.

Solo per citare alcune delle attività in cui è stata impegnata la Commissione Esperti Legali, ricordiamo: il servizio di assistenza legale gratuita agli arbitri vittime di episodi di violenza, l’aggiornamento del massimario delle delibere delle Commissioni di Disciplina, l’attività consultiva estrinsecatasi attraverso la redazione di svariati pareri resi a seguito delle richieste provenienti sia dagli organi centrali che periferici dell’AIA, senza tralasciare il contenzioso sportivo in cui è stata curata la difesa dell’AIA e dei provvedimenti emessi dai suoi organi.

Della Commissione Esperti Legali continuerà a far parte anche l’avv. Vincenzo D’Amore, confermato nell’incarico di Referente regionale per la Campania.

Anche in questo caso, si tratta di un importante riconoscimento per il lavoro svolto, soprattutto per quanto attiene all’assistenza legale gratuita agli arbitri vittime di episodi di violenza.

Qui 👇il comunicato ufficiale

17 Ott, 2022

LA RIUNIONE DI INIZIO STAGIONE SPORTIVA DELLA COMMISSIONE ESPERTI LEGALI DELL’AIA

Di |2022-10-17T19:59:02+02:0017 Ottobre 2022|Categorie: News|

L’avv. Valerio Di Stasio, Responsabile della Commissione Esperti Legali dell’Associazione Italiana Arbitri, e l’avv. Vincenzo D’Amore, Referente Regionale per la Campania, hanno preso parte alla riunione della Commissione Esperti Legali dell’AIA.

Si è svolta a Casalecchio di Reno (BO), il 14 e 15 ottobre scorsi, la riunione della Commissione Esperti Legali dell’Associazione Italiana Arbitri, cui hanno preso parte tutti i componenti nazionali della detta Commissione e i rispettivi referenti di ciascuna regione.

L’avv. Valerio Di Stasio, quale Responsabile della Commissione Esperti Legali dell’Associazione Italiana Arbitri, ha presieduto e coordinato i lavori ai quali ha preso parte anche l’avv. Vincenzo D’Amore in qualità di Referente Regionale per la Campania.

Diversi e di notevole importanza i temi affrontati nel corso dei due giorni, tra i quali l’analisi dei dati statistici relativi al servizio di assistenza legale offerto dall’AIA agli arbitri vittime di episodi di violenza e la relazione inerente all’aggiornamento del massimario delle delibere delle Commissioni di Disciplina dell’AIA, curato dalla Commissione Esperti Legali.

Particolare interesse e spunti di discussione e dibattito hanno destato le tematiche concernenti le novità apportate al processo penale dalla recente riforma Cartabia e quelle inerenti al vincolo di giustizia in materia civile e penale alla luce delle recenti decisioni delle Commissioni di Disciplina dell’AIA e del Collegio di Garanzia dello Sport del CONI.

Infine, l’avv. Di Stasio non ha mancato di illustrare i dati relativi all’attività consultiva della Commissione, che si estrinseca attraverso la redazione di pareri a seguito delle sempre più frequenti richieste in tal senso provenienti sia dagli organi centrali dell’AIA che da quelli periferici e, talvolta, veicolati anche dai singoli associati.

Nel corso dei lavori sono intervenuti anche il componente del Comitato Nazionale dell’AIA, Alberto Zaroli, nonché il Responsabile della Commissione di Studio per l’Osservatorio sulla Violenza, Guido Falca.

All’esito della riunione, l’avv. Di Stasio ha espresso tutta la propria soddisfazione sia per la partecipazione e il contributo apportato dai vari componenti che per i pregevoli risultati raggiunti dalla Commissione negli ultimi anni.

8 Set, 2022

Sequestro preventivo: obbligo di motivazione sul periculum in mora

Di |2022-09-08T10:27:25+02:008 Settembre 2022|Categorie: Diritto penale, News|Tag: |

Con la sentenza n. 31380 del 26 aprile 2022 (depositata in cancelleria il 22 agosto 2022) la Sesta Sezione della Corte di Cassazione Penale è tornata sull’obbligo di motivazione del periculum in mora in relazione al sequestro preventivo finalizzato alla confisca.

Nella specie, ha ribadito e puntualizzato il principio di diritto di recente affermato dalle Sezioni Unite, nella sentenza “Ellade”, secondo cui «il provvedimento di sequestro preventivo ex art. 321 comma 2 c.p.p., finalizzato alla confisca di cui all’art. 240 c.p., deve contenere la concisa motivazione anche del periculum in  mora, da rapportare alle ragioni che rendono necessaria l’anticipazione dell’effetto ablativo della confisca prima della definizione del giudizio, salvo restando che, nelle ipotesi di sequestro delle cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisca reato, la motivazione può riguardare la sola appartenenza del bene al novero di quelli confiscabili ex lege» (Cassazione Penale, Sezioni Unite, sentenza n. 36959 del 24 giugno 2021, depositata in cancelleria l’11 ottobre 2021).

Il superamento del periculum in re ipsa

Nella precedente interpretazione giurisprudenziale si riteneva il periculum sussistente in re ipsa in caso di sequestro preventivo prodromico alla confisca obbligatoria. Tale automatismo appariva contrario al dettato costituzionale; come sottolineato più volte anche dalla giurisprudenza sovranazionale, si determinava una compressione sproporzionata del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica.

L’onere motivazionale sul periculum in mora

Il requisito del periculum in mora può dirsi integrato allorquando sia comprovato il rischio che, nel tempo necessario per pervenire all’accertamento di merito, la futura esecuzione della confisca possa essere vanificata.

Pertanto, nel motivare tale esigenza anticipatoria dell’effetto ablativo della confisca, occorre soffermarsi sulle ragioni per cui, nelle more del giudizio, il bene potrebbe essere modificato, disperso, deteriorato, utilizzato od alienato, con conseguente impossibilità di procedere alla confisca.

La Suprema Corte ha chiarito che per assolvere l’onere motivazionale non è sufficiente far riferimento a un rischio di dispersione del patrimonio del sequestrando affermato in termini meramente apodittici e prospettato come meramente eventuale, se non congetturale, indipendentemente dalle condizioni patrimoniali e dalle condotte del soggetto sottoposto al vincolo reale. Si richiede, invece, una motivazione puntuale sul carattere concreto e attuale del periculum in mora, specificamente argomentato in relazione a ciascun soggetto attinto dalla misura cautelare reale.

26 Lug, 2022

L’INCIDENZA DEL PROVVEDIMENTO DI ASSEGNAZIONE DELLA CASA CONIUGALE RISPETTO ALLO SCIOGLIMENTO DELLA COMUNIONE IMMOBILIARE.

Di |2022-07-26T09:49:47+02:0026 Luglio 2022|Categorie: News|

di Valentina Amantea – Avvocato

In merito all’incidenza che possa avere il provvedimento di assegnazione della casa coniugale rispetto al giudizio di scioglimento della comunione legale, sussisteva una frattura giurisprudenziale che ha trovato risoluzione nell’attuale e recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Si chiarisce, anzitutto, come il suddetto diritto di assegnazione deve esser considerato come un particolare diritto personale di godimento più che come diritto di natura reale, poiché trova la sua ragion d’essere nel provvedimento di assegnazione che guarda specificamente all’interesse preminente dei figli e alla rispettiva continuità della vita familiare, preservando il loro habitat, quale luogo degli affetti, degli interessi, delle abitudini proprie acquisite in quell’ambito familiare, rispettandone il più possibile la stabilità, onde evitare ulteriori traumi.

La questione che divideva in due l’orientamento giurisprudenziale ineriva la valutazione economica del bene immobiliare adibito a casa coniugale ed assegnato al coniuge affidatario della prole, nell’ambito della divisione della comunione, poiché in considerazione della sussistenza del vincolo del diritto di godimento di bene, l’immobile vedrebbe ridurre il rispettivo valore di mercato.

Secondo un primo orientamento, siffatta contrazione verrebbe a generarsi solo allorquando l’immobile, in sede di divisione, dovesse venir venduto ad un terzo, in quanto quest’ultimo vedrebbe limitato il diritto acquistato dal vincolo sussistente sull’immobile, rappresentato dal godimento dello stesso da parte del coniuge assegnatario.

Mentre, nel caso in cui l’immobile dovesse esser attribuito in proprietà esclusiva al coniuge assegnatario si deve considerarne il pieno valore di mercato, poiché il coniuge proprietario non patirebbe il limite del vincolo del diritto di godimento, dal momento che questo verrebbe meno per confusione.

Tanto, in virtù della considerazione per cui ove si dovesse adoperare la decurtazione del valore dell’immobile, il coniuge non assegnatario subirebbe, nella divisione del cespite, una ingiustificata penalizzazione per vedersi una somma non rispondente all’effettiva metà del valore del bene, invece, il coniuge assegnatario in proprietà esclusiva, otterrebbe un altrettanto ingiusta locupletazione, potendo vendere successivamente il bene a terzi senza vincolo e per un prezzo integrale.

Di contro, l’opposto orientamento considerava il diritto di godimento quale condizionamento per la valutazione economica dell’immobile sempre sussistente, a prescindere dall’attribuzione dello stesso al coniuge assegnatario, all’altro coniuge o al terzo, cosicché il coniuge assegnatario si troverebbe, dal punto di vista patrimoniale, nella medesima condizione di quello non assegnatario e del terzo, fin quando il provvedimento di assegnazione non subisca una modifica o una revoca.

Siffatta valutazione, però, non prende in considerazione il profilo per cui il diritto di godimento, quale vincolo limitativo proprio del valore di mercato del bene immobile, viene meno per confusione con l’attribuzione della proprietà esclusiva al coniuge assegnatario, nonché con la modifica o la revoca del provvedimento di assegnazione, in ragione dell’interesse dei figli allorquando diventano autonomi ed economicamente autosufficienti.

Quindi, ci si troverebbe a determinare la decurtazione del valore di mercato dell’immobile anche nel caso in cui, di fatto, il vincolo giustificativo di detta riduzione non sussiste più, per i motivi sopra esposti, ponendosi – talvolta – un ingiustificato vantaggio dell’assegnatario piuttosto che dell’altro coniuge nel caso in cui il primo dovesse vedersi attribuita la proprietà esclusiva della casa coniugale.

Tuttavia, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 18641 del 2022, hanno ritenuto di dover condividere il primo indirizzo giurisprudenziale, ivi illustrato, considerando che il valore dell’immobile, oggetto di divisione, non possa risentire del vincolo del diritto di godimento, allorquando lo stesso venga attribuito al coniuge assegnatario della casa coniugale, in quanto detto diritto viene pacificamente assorbito o confuso con la proprietà al medesimo attribuita.

Pertanto, in sede di determinazione del conguaglio in favore dell’altro coniuge si dovrà far riferimento al valore venale dell’immobile, risultando del tutto irrilevante, in tale sede di divisione, la circostanza per cui all’interno dell’immobile medesimo vi continuino ad abitare i propri figli rimasti affidati al coniuge divenuto proprietario esclusivo, in quanto, siffatto aspetto rientra nella differente questione circa gli obblighi genitoriali di mantenimento della prole.

Infatti, si sottolinea come quest’ultimo aspetto rientra nella questione dell’assegnazione della casa coniugale, la cui valutazione si basa sul preminente interesse dei figli non economicamente indipendenti, che è ben diversa ed autonoma rispetto alla questione inerente la divisione dell’immobile adibito a casa coniugale conseguente lo scioglimento della comunione.

Proprio in ragione di siffatta autonomia, unitamente all’inesistenza del vincolo al diritto di godimento (nel caso in cui l’immobile dovesse esser attribuito in proprietà esclusiva al coniuge assegnatario), non si può escludere che il coniuge divenuto proprietario possa chiedere l’adeguamento del contributo al mantenimento dei figli, dato che nella determinazione dell’assegno, pur venendo meno la componente inerente l’assegnazione della casa familiare, il genitore non residente con i propri figli, resta comunque obbligato a soddisfare il loro diritto a poter usufruire di un’adeguata abitazione, ad una stabile organizzazione domestica che possa rispondere a tutte le necessità di cura ed educazione, cercando di preservare il più possibile quanto – da loro – goduto in precedenza.

Ovviamente, nell’ipotesi in cui all’esito dello scioglimento della comunione l’immobile dovesse venir attribuito in proprietà esclusiva al coniuge non assegnatario, il valore di mercato dell’immobile sarà da considerarsi decurtato, venendosi a trovare nella medesima condizione del terzo, in quanto il predetto diventerà titolare di un diritto di proprietà limitato nelle facoltà di godimento correlate alla perdurante assegnazione dell’immobile al coniuge affidatario della prole.

In conclusione, ne deriva una soluzione differenziata rispetto alla considerazione del valore da attribuire all’immobile, a seconda che questo sia assegnato in proprietà esclusiva al coniuge assegnatario della casa familiare e della prole (valore pieno di mercato), ovvero sia trasferito in proprietà esclusiva al coniuge non assegnatario o ad un terzo (valore ridotto), considerando che per tali circostanze permane il diritto di godimento in capo all’altro coniuge.

 

 

6 Lug, 2022

I poteri e i compiti dell’Organismo di Vigilanza

Di |2022-07-04T12:56:35+02:006 Luglio 2022|Categorie: Diritto penale, News|Tag: , , |

Con la sentenza che pone fine alla vicenda Impregilo (Cassazione, Sezione VI Penale, n. 23401 dell’11 novembre 2021, depositata il 15 giugno 2022), la Suprema Corte coglie l’occasione per dissipare ogni dubbio su quali siano i poteri e i compiti assegnati all’Organismo di Vigilanza dal Decreto Legislativo n. 231/2001 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300).

In particolare, vengono superate le recenti pronunce di merito che impropriamente hanno attribuito all’Organismo di Vigilanza il compito (e il potere) di impedire la commissione di reati.

Le indicazioni della Cassazione sul ruolo dell’Organismo di Vigilanza

Per definire i poteri e le responsabilità dell’Organismo di Vigilanza, la Suprema Corte parte dal dato normativo.

Nello specifico, ricorda come tra le condizioni che l’art. 6, D. Lgs. n. 231/2001 pone per mandare esente l’ente dalla responsabilità per il delitto commesso dai suoi vertici, vi è anche quella di aver affidato “il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli [e] di curare il loro aggiornamento… a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo”.

Da qui si ricava che requisito imprescindibile di tale organismo è l’autonomia rispetto agli amministratori, mentre il compito affidatogli è solamente quello di individuare e segnalare le criticità del modello di organizzazione e di gestione e della sua attuazione, senza alcuna responsabilità di gestione.

Invero, l’autonomia finirebbe per essere inevitabilmente minata laddove fossero attribuiti all’Organismo di Vigilanza connotazioni di tipo gestorio.

L’amministrazione e le scelte operative della società non possono essere appannaggio dell’Organismo di Vigilanza e la verifica dell’operato degli amministratori spetta all’assemblea ed agli altri organi societari, entro limiti e procedure stabiliti dalla legge e dallo statuto.

Nell’ambito del sistema 231, la Corte ribadisce come spettino all’Organismo di Vigilanza soltanto compiti di controllo sistemico continuativo sulle regole cautelari predisposte e sul rispetto di esse nell’ambito del modello organizzativo di cui l’ente si è dotato. In ogni caso, per poter affermare la responsabilità dell’ente in relazione a mancanze attribuibili all’Organismo di Vigilanza, è necessario accertare l’efficienza causale delle stesse nella commissione del reato presupposto.

 

30 Giu, 2022

L’esclusione dell’assegno di divorzio

Di |2022-06-30T18:53:23+02:0030 Giugno 2022|Categorie: News|

di Raffaella Mazzariello Avvocato 

Con l’Ordinanza n. 18697 del 9.6.2022 la Cassazione è di nuovo stata chiamata a verificare la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento dell’assegno divorzile all’ex coniuge.

Ancora una volta la Corte ribadisce la funzione non solo assistenziale ma perequativa/compensativa dell’assegno.

Infatti, quando ognuno degli ex coniugi sia in grado di mantenersi autonomamente, l’assegno va riconosciuto in favore di quello economicamente più debole in una funzione equilibratrice non più finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale ma volta a consentirgli il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito alla vita familiare, dovendosi tener conto, in particolare, se, per realizzare i bisogni della famiglia, questi, anche in ragione dell’età raggiunta e della durata del matrimonio, abbia rinunciato (alle) o sacrificato le proprie personali aspirazioni e aspettative professionali.

Il riconoscimento, quindi, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri previsti dalla legge i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto come del resto già previsto dalla Cassazione Civile a Sezioni Unite con la sentenza n. 18287/2018.

Nel caso esaminato, pertanto, veniva respinta la richiesta avanzata dall’ex moglie di riconoscimento dell’assegno divorzile in funzione compensativa essendo stata accertata la piena autosufficienza della medesima.

15 Giu, 2022

La pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite sulla natura della comunione de residuo avente ad oggetto l’impresa individuale del coniuge

Di |2022-06-15T16:39:18+02:0015 Giugno 2022|Categorie: News|

di Stefania Avitabile – Dottoressa in giurisprudenza

Le Sezioni Unite, con la recentissima pronuncia del 17 maggio 2022 n. 15889, esprimendosi in merito alla natura giuridica della comunione de residuo avente ad oggetto l’impresa del coniuge, hanno affermato il seguente principio di diritto: “Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data”

 

La dibattuta questione, rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite con l’Ordinanza interlocutoria n. 28872/2021, sorge dall’assenza di un univoco indirizzo giurisprudenziale relativamente alle distinte impostazioni dottrinali in tema di comunione de residuo.

 

È proprio nell’ambito di tale contrasto tra la tesi che attribuisce al coniuge non imprenditore un diritto di credito, da un lato, e la tesi che invece opta per il riconoscimento di un diritto di compartecipazione alla titolarità dei singoli beni individuali, dall’altro, che si innesta con forza innovativa la sentenza in commento.

 

La comunione de residuo tra coniugi

 

Ai fini di una piena comprensione della pronuncia dalle Sezioni Unite, risulta necessario un breve excursus sulla comunione de residuo.

 

Nel nostro ordinamento giuridico, la comunione legale dei beni costituisce il regime patrimoniale dei coniugi, salvo che essi non decidano diversamente (applicabile altresì alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, per effetto dell’art. 1, comma 13, della legge n. 76/2016, ed è accessibile anche ai conviventi di fatto, a determinate condizioni).

La scelta di tale regime corrisponde alla considerazione della famiglia come consortium omnis vitae, nonché alla specifica esigenza di tutela del coniuge economicamente e socialmente più debole. Sebbene la finalità dell’istituto sia quella di garantire l’uguaglianza delle sorti economiche dei coniugi in relazione agli eventi verificatisi dopo il matrimonio, tuttavia, si evidenzia come il legislatore, contemporaneamente, abbia voluto assicurare al singolo coniuge un adeguato spazio di autonomia nell’esercizio delle proprie attività professionali o imprenditoriali, ed in generale nella gestione dei propri redditi da lavoro come pure dei frutti ricavati dai beni personali.

 

Difatti, accanto ai beni che ricadono in comunione immediata e, pertanto, entrano nel patrimonio comune al momento del loro acquisto, e a quelli che nascono come personali e come tali restano anche una volta cessata la comunione legale, sussiste una serie di beni ricadenti nella c.d. comunione de residuo (l’individuazione dei beni oggetto della cd. comunione de residuo viene tratta dagli articoli 177 lett. b) e c) e 178 c.c.).

Questi beni, pur restando personali durante la vigenza del regime patrimoniale legale, vengono attratti dalla disciplina della comunione legale laddove siano effettivamente e concretamente esistenti nel patrimonio dei coniugi al momento dello scioglimento del matrimonio.

 

Le ragioni alla base della decisione delle Sezioni Unite

 

Le Sezioni Unite, nell’argomentare la propria pronuncia, hanno evidenziato coma “la disciplina dei beni personali e quella specificamente dettata per i beni oggetto della cd. comunione de residuo testimoniano l’evidente emersione, pur all’interno di un regime ispirato alla tutela di esigenze solidaristiche tra i coniugi, della necessità di attribuire rilevanza anche a legittime aspirazioni individuali, che non potrebbero essere del tutto mortificate, e ciò in quanto il matrimonio presuppone comunque il riconoscimento della persona e della sua sfera di autonomia come valore primario che gli istituti giuridici sono chiamati ad attuare, soprattutto ove l’attività individuale si rivolga all’esercizio dell’attività di impresa o professionale”.

Da quanto affermato, dunque, emerge chiaramente la volontà del legislatore di garantire al coniuge imprenditore, finché dura la comunione legale, il potere di gestire dell’impresa, investendo a suo piacimento gli utili e disponendo liberamente dei beni e degli utili aziendali.

 

Sulla base di tali premesse, la Corte ha ritenuto che la questione oggetto dell’ordinanza di rimessione devesse essere decisa optando per la tesi della natura creditizia del diritto nascente dalla comunione de residuo, riconoscendo un diritto di compartecipazione sul piano appunto creditizio, pari alla metà dell’ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo, ovvero del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività.

Questa impostazione, infatti, garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale, evitando un pregiudizio per le ragioni dei creditori e consentendo la sopravvivenza dell’impresa, senza che le vicende dei coniugi abbiano una diretta incidenza sulle sorti della stessa.

L’insorgenza di una comunione anche sui beni mobili ed immobili confluiti nell’azienda, al contrario, comporterebbe una serie di problematiche e pregiudizi, quali:

  • lo scoraggiamento dei creditori nel continuare a riporre fiducia nella gestione successiva allo scioglimento della comunione legale. Ciò perché i terzi che hanno intrattenuto rapporti con l’impresa individuale del coniuge, al momento dello scioglimento della comunione legale, vedrebbero dimidiata la garanzia patrimoniale offerta dai beni, in quanto non più di proprietà esclusiva, ma in comproprietà con l’ex coniuge;
  • la contitolarità sui beni oggetto della comunione de residuo imporrebbe, nella loro successiva gestione, il rispetto delle regole dettate per i beni comuni, con il concreto rischio di paralisi nell’esercizio dell’attività di impresa, anche laddove si reputi che la qualità di imprenditore resti sempre in capo al solo coniuge che l’aveva prima dello scioglimento del regime della comunione legale;
  • l’irrazionalità della tesi della natura reale del diritto, che ricollega un incremento dei legami economici fra i due coniugi proprio al verificarsi di vicende che, secondo la stessa previsione legislativa, ne dovrebbero invece comportare la cessazione;
  • il nocumento all’autonomia e della libertà del coniuge imprenditore derivante dall’automatico passaggio dei beni comuni de residuo, dalla titolarità e disponibilità esclusive, al patrimonio in comunione, con il rischio che la conflittualità tra coniugi possa riverberarsi anche nella gestione e nelle scelte che afferiscano ai beni aziendali caduti nella comunione de residuo;
  • i possibili problemi esiziali per la sopravvivenza dell’impresa derivanti dal carattere ordinario della comunione. Difatti, in assenza di una specifica previsione che contempli una prelazione a favore del coniuge già imprenditore, all’esito della divisione, ove il complesso aziendale non risultasse comodamente divisibile, ben potrebbe verificarsi l’attribuzione dello stesso al coniuge non imprenditore, ovvero, in assenza di richieste in tal senso da parte dei condividenti, si potrebbe addivenire alla alienazione a terzi. Ed ancora, in caso di morte del coniuge non imprenditore, verrebbe a configurarsi la creazione della comunione sui beni di cui all’art. 178 c.c. tra il coniuge imprenditore e gli eredi dell’altro coniuge, che ben potrebbero essere anche estranei al nucleo familiare ristretto;
  • l’inconciliabilità della natura reale del diritto con la previsione secondo cui ricadano in comunione anche gli incrementi, che per la loro connotazione, mal si prestano a configurare una comunione in senso reale sui medesimi;
  • l’inesattezza dell’idea, sostenuta da molti fautori della tesi della natura reale del diritto, che la comunione sorga automaticamente non sull’azienda o sugli incrementi, bensì sul saldo attivo del patrimonio aziendale (o dei suoi incrementi); il saldo attivo del patrimonio aziendale è un’entità astratta che non può riferirsi se non al valore monetario del complesso dei beni che costituiscono l’azienda stessa, dedotte le passività, pertanto ne deriva l’impossibilità di una reale contitolarità di diritti sui beni in oggetto, dovendosi invece propendere per la soluzione che attribuisce al coniuge non titolare del diritto reale una (eventuale, una volta effettuati i dovuti calcoli) pretesa di carattere creditorio.
1 Giu, 2022

Sulla revocabilità del pagamento eseguito dal debitore fallito

Di |2022-06-01T17:30:45+02:001 Giugno 2022|Categorie: News|

Con la sentenza n. 5049 del 16 febbraio 2022 le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno affermato importanti principi di diritto in tema di revoca ex art. 67 L.F

I fatti di causa

Nell’ambito di un giudizio relativo ad una pluralità di domande revocatorie proposte dal fallimento della s.a.s rivolte nei confronti di un Istituto di credito, venivano accolte alcune di esse da parte della Corte di Appello di Messina e, per quel che interessa, la domanda relativa alla rimessa d’importo pari a Lire 40.000.000 effettuata in favore dell’istituto bancario, nel periodo sospetto L. Fall., ex art. 67, comma 2, dovuta all’incameramento del corrispettivo della vendita di un certificato di deposito costituito in pegno dal debitore fallito.

La Corte d’appello accoglieva la revocatoria e disponeva l’ammissione al chirografo della banca ai sensi di quanto disposto dall’art. 70, comma 2, L.F.

L’istituto di credito proponeva ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

La Banca deduceva in particolare il difetto di prova della conoscenza dello stato d’insolvenza da parte della banca, l’omessa valutazione dei mezzi di prova, in relazione alla riconosciuta natura solutoria delle rimesse che, al contrario, avrebbero dovuto essere ritenute di natura ripristinatoria ed, infine, contestava il mancato riconoscimento da parte della Corte di Appello del carattere irrevocabile dell’incameramento della somma derivante dal certificato di deposito determinato da un diritto di pegno oramai consolidato (c.d. pegno rotativo).

Alla luce della particolare rilevanza dei temi da esaminare, la Sesta Sezione della Corte di legittimità ha rinviato il ricorso alla Prima Sezione civile che, a sua volta, ha rimesso le questioni ritenute di massima importanza alle Sezioni Unite con ordinanza n. 8923 del 31 marzo 2021.

I principi di diritto sanciti dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 5049 del 16 febbraio 2022

Le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, hanno statuito i seguenti principi di diritto:

  1. il pagamento eseguito dal debitore, successivamente fallito, nel periodo sospetto, così come determinato nell’art. 67, comma 2, L.F., ove si accerti la “scientia decotionis” del creditore, è sempre revocabile anche se effettuato in adempimento di un credito assistito da garanzia reale ed anche se l’importo versato deriva dalla vendita del bene oggetto di pegno.
  2. la revoca ex art. 67 L.F. del pagamento eseguito in favore del creditore pignoratizio, con il ricavato della vendita del bene oggetto del pegno, determina il diritto del creditore che ha subito la revocatoria ad insinuarsi al passivo del fallimento con il medesimo privilegio nel rispetto delle regole distributive di cui agli articoli 111, 111 bis, 111 ter e 111 quater, L.F.
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