19 Lug, 2023

DANNO DA DEPRIVAZIONE PARENTALE E DECORRENZA DELLA PRESCRIZIONE

Di |2023-07-19T18:42:34+02:0019 Luglio 2023|Categorie: Diritto di famiglia, Diritto penale, Lo Studio, News|Tag: , , , , |

La Carta Costituzionale, negli articoli 2 e 30, nonché le norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento, riconoscono e tutelano tutti quei diritti nascenti dal rapporto di filiazione, la cui condotta posta in essere dal genitore, relativa alla violazione degli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione, ne costituisce una completa sovversione unitamente alla produzione di un’insanabile ferita e danno nei confronti del figlio, così – consapevolmente o inconsapevolmente – danneggiato.

Si parla, infatti, di abbandono parentale che consiste proprio nel mancato adempimento di tutti gli obblighi che il genitore assume nei confronti della prole, concretizzata nella completa e totale assenza del genitore nella vita filiale, fondante un papabile esempio di illecito omissivo di carattere permanente.

Da qui, è opportuno rilevare che l’illecito endofamiliare è dato da una serie di comportamenti omissivi protratti nel tempo, non può riferirsi ad un solo atto fine a sé stesso ed isolato, poiché costituisce una fattispecie complessa ed a formazione progressiva proveniente da un comportamento omissivo volontario, posto in essere dal genitore, che prosegue senza interruzione, ed è solo il genitore-autore stesso a decidere se ed in quale momento porre fine a siffatta situazione dannosa per il proprio figlio.

Detto illecito, quindi, è suscettibile di interruzione solo per una radicale modificazione dell’atteggiamento genitoriale in riferimento – dunque – all’adempimento concreto degli obblighi nei riguardi della prole.

La problematica affrontata dalla Suprema Corte di Cassazione, attraverso la sentenza n. 9930 del 13.4.2023, inerisce l’individuazione del dies a quo della prescrizione del danno da deprivazione parentale, quale illecito permanente.

Infatti, prendendo a fondamento i principi affermati già precedentemente dalla medesima Corte di Cassazione con le sentenze n. 11097/2020 e n. 40335/2020, nella considerazione che nell’illecito permanente la condotta perdura oltre il momento della produzione del danno e lo cagiona per tutto il corso della sua durata, la Corte offre una visione di natura soggettiva – in contrapposizione con quella di natura oggettiva – secondo cui il dies a quo della prescrizione si debba necessariamente rapportare ad una piena comprensione delle ragioni che giustificano l’attività della vittima rispetto all’effettivo e concreto esercizio dei suoi diritti.

Tanto, in considerazione del fatto che il figlio, ossia la vittima, potrebbe trovarsi in una condizione psichica per cui non risulti esser in grado di percepire quell’istintivo desiderio filiale di un rapporto positivo col proprio genitore, di conseguenza potrebbe non esser nelle condizioni di carpire la reale situazione a sé pregiudizievole e – quindi – di assumere reattive decisioni nell’esercizio di quelli che sono i suoi diritti di figlio, abbandonati ed inadempiuti dal genitore.

Per meglio comprendere ciò, è opportuno specificare che questo particolare tipo di illecito, qual è quello endofamiliare, produce anche un danno non patrimoniale, di tipo psicologico-esistenziale, poiché condiziona la formazione della personalità del danneggiato, nonché lo sviluppo delle sue capacità di comprensione, di difesa e di relazione, condizionando il suo percorso di vita.

Dunque, non ci si deve limitare ad una superficiale disamina dell’evolversi nel tempo di quelle che sono le conseguenze lesive scaturenti dal fatto illecito o dall’inadempimento del genitore, ma è necessario verificare la concomitante sussistenza della percezione di quei comportamenti illeciti ed inadempienti da parte del danneggiato stesso.

Proprio la percepibilità e la conoscenza delle devastanti e, talvolta, irrimediabili conseguenze affettive dell’abbandono, del disamore e del disinteresse, da parte del danneggiato, quale particolare caratteristica del suddetto illecito endofamiliare incide sella valutazione del dies a quo prescrizionale.

Pertanto, l’errore in cui si può incorrere per tale valutazione, è quello di non considerare che l’illecito può dirsi cessato solo laddove si accerti che la condotta abbandonica sia venuta meno per effetto di un pieno e consapevole recupero del rapporto col figlio, o laddove il genitore dimostri di non aver potuto porre fine alla condotta omissiva per causa a lui non imputabile.

Di conseguenza, ignorando questi aspetti, si incorre in errore nella determinazione del termine prescrizionale.

8 Set, 2022

Sequestro preventivo: obbligo di motivazione sul periculum in mora

Di |2022-09-08T10:27:25+02:008 Settembre 2022|Categorie: Diritto penale, News|Tag: |

Con la sentenza n. 31380 del 26 aprile 2022 (depositata in cancelleria il 22 agosto 2022) la Sesta Sezione della Corte di Cassazione Penale è tornata sull’obbligo di motivazione del periculum in mora in relazione al sequestro preventivo finalizzato alla confisca.

Nella specie, ha ribadito e puntualizzato il principio di diritto di recente affermato dalle Sezioni Unite, nella sentenza “Ellade”, secondo cui «il provvedimento di sequestro preventivo ex art. 321 comma 2 c.p.p., finalizzato alla confisca di cui all’art. 240 c.p., deve contenere la concisa motivazione anche del periculum in  mora, da rapportare alle ragioni che rendono necessaria l’anticipazione dell’effetto ablativo della confisca prima della definizione del giudizio, salvo restando che, nelle ipotesi di sequestro delle cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisca reato, la motivazione può riguardare la sola appartenenza del bene al novero di quelli confiscabili ex lege» (Cassazione Penale, Sezioni Unite, sentenza n. 36959 del 24 giugno 2021, depositata in cancelleria l’11 ottobre 2021).

Il superamento del periculum in re ipsa

Nella precedente interpretazione giurisprudenziale si riteneva il periculum sussistente in re ipsa in caso di sequestro preventivo prodromico alla confisca obbligatoria. Tale automatismo appariva contrario al dettato costituzionale; come sottolineato più volte anche dalla giurisprudenza sovranazionale, si determinava una compressione sproporzionata del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica.

L’onere motivazionale sul periculum in mora

Il requisito del periculum in mora può dirsi integrato allorquando sia comprovato il rischio che, nel tempo necessario per pervenire all’accertamento di merito, la futura esecuzione della confisca possa essere vanificata.

Pertanto, nel motivare tale esigenza anticipatoria dell’effetto ablativo della confisca, occorre soffermarsi sulle ragioni per cui, nelle more del giudizio, il bene potrebbe essere modificato, disperso, deteriorato, utilizzato od alienato, con conseguente impossibilità di procedere alla confisca.

La Suprema Corte ha chiarito che per assolvere l’onere motivazionale non è sufficiente far riferimento a un rischio di dispersione del patrimonio del sequestrando affermato in termini meramente apodittici e prospettato come meramente eventuale, se non congetturale, indipendentemente dalle condizioni patrimoniali e dalle condotte del soggetto sottoposto al vincolo reale. Si richiede, invece, una motivazione puntuale sul carattere concreto e attuale del periculum in mora, specificamente argomentato in relazione a ciascun soggetto attinto dalla misura cautelare reale.

6 Lug, 2022

I poteri e i compiti dell’Organismo di Vigilanza

Di |2022-07-04T12:56:35+02:006 Luglio 2022|Categorie: Diritto penale, News|Tag: , , |

Con la sentenza che pone fine alla vicenda Impregilo (Cassazione, Sezione VI Penale, n. 23401 dell’11 novembre 2021, depositata il 15 giugno 2022), la Suprema Corte coglie l’occasione per dissipare ogni dubbio su quali siano i poteri e i compiti assegnati all’Organismo di Vigilanza dal Decreto Legislativo n. 231/2001 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300).

In particolare, vengono superate le recenti pronunce di merito che impropriamente hanno attribuito all’Organismo di Vigilanza il compito (e il potere) di impedire la commissione di reati.

Le indicazioni della Cassazione sul ruolo dell’Organismo di Vigilanza

Per definire i poteri e le responsabilità dell’Organismo di Vigilanza, la Suprema Corte parte dal dato normativo.

Nello specifico, ricorda come tra le condizioni che l’art. 6, D. Lgs. n. 231/2001 pone per mandare esente l’ente dalla responsabilità per il delitto commesso dai suoi vertici, vi è anche quella di aver affidato “il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli [e] di curare il loro aggiornamento… a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo”.

Da qui si ricava che requisito imprescindibile di tale organismo è l’autonomia rispetto agli amministratori, mentre il compito affidatogli è solamente quello di individuare e segnalare le criticità del modello di organizzazione e di gestione e della sua attuazione, senza alcuna responsabilità di gestione.

Invero, l’autonomia finirebbe per essere inevitabilmente minata laddove fossero attribuiti all’Organismo di Vigilanza connotazioni di tipo gestorio.

L’amministrazione e le scelte operative della società non possono essere appannaggio dell’Organismo di Vigilanza e la verifica dell’operato degli amministratori spetta all’assemblea ed agli altri organi societari, entro limiti e procedure stabiliti dalla legge e dallo statuto.

Nell’ambito del sistema 231, la Corte ribadisce come spettino all’Organismo di Vigilanza soltanto compiti di controllo sistemico continuativo sulle regole cautelari predisposte e sul rispetto di esse nell’ambito del modello organizzativo di cui l’ente si è dotato. In ogni caso, per poter affermare la responsabilità dell’ente in relazione a mancanze attribuibili all’Organismo di Vigilanza, è necessario accertare l’efficienza causale delle stesse nella commissione del reato presupposto.

 

20 Apr, 2022

Le somme in sequestro vanno svincolate per consentire alla società di pagare le imposte

Di |2022-04-20T18:27:22+02:0020 Aprile 2022|Categorie: Diritto penale, News|

Con una recente sentenza in tema di responsabilità amministrativa degli enti, la Suprema Corte ha stabilito che, pur «nel silenzio del d. lgs. n. 231 del 2001, il dissequestro parziale delle somme in sequestro per pagare il debito tributario debba essere consentito, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata del principio di proporzionalità della misura cautelare, là dove si renda necessario al fine di evitare, per effetto dell’applicazione del sequestro preventivo e dell’inderogabile incidenza dell’obbligo tributario, la cessazione definitiva dell’esercizio dell’attività dell’ente prima della definizione del processo» (Cassazione, Sezione VI Penale, n. 13936 del 2022).

La questione controversa

In via preliminare, la Corte ha richiamato la nozione di profitto oggetto di confisca come ricostruita dalle Sezioni Unite Fisia Italimpianti S.p.a. (Cassazione, Sezioni Unite Penali, n. 26654 del 2008). Per giurisprudenza ormai consolidata, in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato, oggetto della confisca di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001, si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone.

Pertanto, stando a tale nozione, dal profitto frutto dell’illecito va decurtata l’utilità conseguita dalla controparte, ma non va sottratto l’onere delle imposte che l’ente dovrebbe pagare sui redditi lucrati dalla commissione del reato presupposto.

Senonché, il prelievo fiscale su un ammontare già sottoposto a sequestro ai fini di confisca comporterebbe una duplicazione sanzionatoria a danno della società che potrebbe comprometterne incontrovertibilmente la continuità aziendale. Si tradurrebbe, in altri termini, in una forma di interdizione definitiva dell’attività precedente all’accertamento della responsabilità dell’ente e indipendente dallo stesso.

Si aggiunga, inoltre, che, con riguardo alle persone fisiche, si prevede espressamente che il quantum della confisca del profitto dei reati tributari si riduca per effetto del pagamento del debito tributario.

La soluzione accolta

Sulla scorta di tali considerazione, la Corte ha ritenuto «che, in attuazione del principio di proporzionalità della misura cautelare, il giudice possa autorizzare il dissequestro parziale delle somme sottoposte a sequestro preventivo finalizzato alla confisca per consentire all’ente di pagare le imposte dovute sulle medesime quale profitto di attività illecite, quando l’entità del vincolo reale disposto, pur legittimamente determinato in misura corrispondente al prezzo o al profitto del reato rischi di determinare, anche in ragione dell’incidenza dell’obbligo tributario, già prima della definizione del processo, la cessazione definitiva dell’esercizio dell’attività dell’ente.

In tali specifici casi lo svincolo parziale delle somme sequestrate deve ritenersi ammesso alla stringente condizione della dimostrazione di un sequestro finalizzato alla confisca che, nella sua concreta dimensione afflittiva, metta in pericolo la operatività corrente e, dunque, la sussistenza stessa del soggetto economico e al solo limitato fine di pagare il debito tributario, con vincolo espresso di destinazione e pagamento in forme “controllate”».

 

29 Mar, 2022

La tutela penale del patrimonio culturale

Di |2022-03-29T10:26:56+02:0029 Marzo 2022|Categorie: Diritto penale, News|Tag: , |

E’ entrata in vigore il 23 marzo 2022 la legge 9 marzo 2022 n. 22, recante “Disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 68 del 22 marzo 2022.

Con l’adozione di detta legge il legislatore ha inteso rafforzare, tramite strumenti di diritto penale, la tutela del patrimonio culturale quale bene di rango costituzionale. Invero, l’art. 9 della Carta Costituzionale sancisce che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura nonché tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione“.

Le modifiche al codice penale

La riforma ha  comportato l’introduzione, all’interno del libro II del codice penale, del titolo VIII-bis, rubricato “Dei delitti contro il patrimonio culturale”, composto degli articoli da art. 518-bis a art. 518-undevicies.

In particolare, sono stati individuati i seguenti illeciti penali:

  • furto di beni culturali;
  • ricettazione di beni culturali;
  • impiego di beni culturali provenienti da delitto;
  • riciclaggio di beni culturali;
  • autoriciclaggio di beni culturali;
  • falsificazione in scrittura privata relativa a beni culturali;
  • violazioni in materia di alienazione di beni culturali;
  • uscita o esportazione illecite di beni culturali;
  • distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici;
  • devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici.

Le fattispecie di reato già previste dal codice dei beni culturali (d.lgs. 42/2004) sono state ricollocate all’interno del codice penale e per le stesse è stato stabilito un innalzamento delle pene edittali, al fine di assicurare ai beni di valore storico e artistico una tutela maggiore rispetto a quella offerta alla proprietà privata.

Con due ulteriori articoli, poi, sono state disciplinate speciali circostanze aggravanti e attenuanti.

In dettaglio, la pena è aumentata da un terzo alla metà quando un reato a tutela del patrimonio culturale:

  1. cagiona un danno di rilevante gravità;
  2. è commesso nell’esercizio di un’attività professionale, commerciale, bancaria o finanziaria;
  3. è posto in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, preposto alla conservazione o alla tutela di beni culturali mobili o immobili;
  4. è realizzato nell’ambito dell’associazione per delinquere di cui all’articolo 416.

Di contro, la pena è diminuita di un terzo quando uno dei menzionati reati cagioni un danno di speciale tenuità ovvero comporti un lucro di speciale tenuità quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità.

Ancora, la pena è diminuita da un terzo a due terzi nei confronti di chi abbia consentito l’individuazione dei correi o abbia fatto assicurare le prove del reato o si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori o abbia recuperato o fatto recuperare i beni culturali oggetto del delitto.

Inoltre, il legislatore ha modificato l’articolo 240-bis c.p. inserendo taluni reati a tutela del patrimonio tra i delitti in relazione ai quali è consentita la c.d. confisca allargata, ossia la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona, per un valore corrispondente al profitto o al prodotto del reato.

I nuovi reati presupposto della responsabilità degli enti

Da ultimo, la legge di riforma è intervenuta anche sul d.lgs. 231/2001, recante la “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche” derivante da reato, inserendo due nuovi articoli:

  • l’art. 25-septiesdecies, rubricato “delitti contro il patrimonio culturale”;
  • l’art. 25-duodevicies, rubricato “riciclaggio di beni culturali e devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici”.

Ha così ampliato il catalogo dei reati per i quali è prevista la responsabilità amministrativa delle società. Nello specifico, assumono rilievo ex d.lgs. 231/2001, se commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente, i seguenti reati:

  • violazioni in  materia  di  alienazione  di  beni culturali (art. 518-novies c.p.);
  • appropriazione indebita di beni culturali (art. 518-ter c.p.);
  • importazione illecita di beni culturali (art. 518-decies c.p.);
  • uscita o esportazione illecite di beni culturali (art. 518-undecies c.p.);
  • riciclaggio di beni culturali (art. 518-sexies c.p.);
  • distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali e paesaggistici (art. 518-duodecies c.p.);
  • contraffazione di opere d’arte (art. 518-quaterdecies c.p.);
  • furto di beni culturali (art. 518-bis c.p.);
  • ricettazione di beni culturali (art. 518-quater c.p.);
  • falsificazione in scrittura privata relativa a beni culturali (art. 518-octies c.p.);
  • riciclaggio di beni culturali (art. 518-sexies c.p.);
  • devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici (art. 518-terdecies c.p.).

Alla luce delle novità legislative, pertanto, potrebbe risultare necessario apportare modifiche al modello organizzativo eventualmente adottato dalle società ai sensi del d.lgs. 231/2001.

25 Feb, 2022

Il reato di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente in ipotesi di affidamento diretto

Di |2022-02-24T12:35:46+01:0025 Febbraio 2022|Categorie: Diritto penale, News|Tag: , , |

La Suprema Corte, con una recente sentenza (Cassazione, Sezione VI Penale, n. 5536 del 16 febbraio 2022 – ud. 28 ottobre 2021), è tornata a occuparsi dei confini applicativi della fattispecie di reato cui all’art. 353-bis c.p. (“turbata libertà del procedimento di scelta del contraente”).

In particolare, la Corte ha affrontato una questione specifica, oggetto negli ultimi anni di pronunce discordi: se il delitto di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente sia configurabile in presenza di un affidamento diretto illegittimamente disposto per effetto della condotta perturbatrice volta ad impedire la gara.

La fattispecie di reato

L’art. 353-bis c.p. è stato introdotto dal legislatore con l’art. 10 della legge 13 agosto 2010, n. 136 (“Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”) al fine di colpire le condotte criminose volte a turbare le fasi preliminari di una gara.

Invero, la norma punisce – con la reclusione da sei mesi a cinque anni e con la multa da € 103 a € 1.032 – “chiunque con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, turba il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione”.

Il delitto in parola è un reato istantaneo che si consuma nel momento e nel luogo in cui si turba il procedimento amministrativo di scelta del contraente.

La questione controversa

Al fine di definire la condotta tipica del reato, occorre individuare con esattezza il tipo di procedimento amministrativo che assume rilievo, nonché interpretare correttamente il sintagma “contenuto del bando e di altro atto equipollente”.

Stando al dato letterale della norma incriminatrice, la condotta perturbatrice deve essere finalizzata a inquinare il contenuto di un atto che detta i requisiti e le modalità di partecipazione a una competizione per la scelta del contraente.

Esula, quindi, dal perimetro applicativo della disposizione, una condotta volta ad impedire la gara attraverso l’affidamento illegittimo diretto dei lavori che non si realizzi mediante un’azione di alterazione di un bando o di un atto che abbia la stessa funzione.

La soluzione giuridica

Pertanto, la Suprema Corte, in ossequio ai principi di legalità, tipicità e divieto di analogia in malam partem, ha enunciato il seguente principio di diritto:

in caso di affidamento diretto, il delitto previsto dall’art. 353-bis c.p.:

a) è configurabile quando la trattativa privata, al di là del nomen juris, prevede, nell’ambito del procedimento amministrativo di scelta del contraente, una “gara”, sia pure informale, cioè un segmento valutativo concorrenziale;

b) non è configurabile nelle ipotesi di contratti conclusi dalla pubblica amministrazione a mezzo di trattativa privata in cui il procedimento è svincolato da ogni schema concorsuale;

c) non è configurabile quando la decisione di procedere all’affidamento diretto è essa stessa il risultato di condotte perturbatrici volte ad evitare la gara”.

18 Gen, 2022

La riabilitazione

Di |2022-01-17T16:28:52+01:0018 Gennaio 2022|Categorie: Diritto penale|Tag: |

La riabilitazione è una causa di estinzione della pena prevista dal nostro codice penale. Questa consente al soggetto condannato di eliminare gli effetti limitativi della capacità giuridica che conseguono alla sentenza.

Spesso, infatti, una condanna comporta anche l’applicazione di pene accessorie (quali l’interdizione dai pubblici uffici, l’interdizione legale, l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, l’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro, la decadenza o sospensione dall’esercizio della potestà genitoriale) e/o ulteriori effetti, di natura civile e amministrativa, che possono costituire un ostacolo per l’ammissione a concorsi pubblici, per l’attribuzione di taluni benefici e/o sussidi, per la partecipazione a gare ad evidenza pubblica e/o per l’assunzione di determinati incarichi.

I presupposti della domanda di riabilitazione

Per la concessione della riabilitazione è necessario, in prima battuta, il decorso di un lasso di tempo pari ad almeno tre anni dal giorno in cui la pena principale (detentiva o pecuniaria) è stata eseguita o si sia in altro modo estinta (almeno otto anni in caso di recidiva, almeno dieci anni in ipotesi di abitualità, professionalità o tendenza a delinquere).

Occorre poi fornire la prova di effettiva e costante buona condotta serbata durante il periodo di tempo intercorrente tra la pronuncia di condanna e la concessione della riabilitazione. Nello specifico, il soggetto non deve avere subito ulteriori condanne e deve altresì dimostrare il suo reinserimento nel tessuto sociale (lavoro, famiglia, comunità).

Il condannato, inoltre, deve aver riparato il danno conseguente al reato dallo stesso commesso o deve provare di non aver potuto risarcire la persona offesa per cause a lui non imputabili.

Infine, il soggetto deve aver pagato le spese di giustizia e non deve essere stato sottoposto a misure di sicurezza (escluse l’espulsione dello straniero e la confisca).

L’istanza di riabilitazione

Competente a decidere sulla domanda di riabilitazione è il Tribunale di Sorveglianza territorialmente competente in relazione al luogo di residenza dell’istante.

Effetti della riabilitazione

Come detto, la riabilitazione estingue le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna.

Si riacquista, quindi, la piena capacità giuridica: il soggetto può operare nel contesto sociale come prima della condanna. In particolare, gli interdetti dai pubblici uffici riottengono il diritto di elettorato attivo, mentre gli stranieri possono acquisire la cittadinanza.

In ambito penale, infine, la precedente condanna non viene più valutata ai fini della recidiva e della dichiarazione di abitualità e professionalità del reato, né rileva come condizione ostativa alla concessione dell’amnistia e/o dell’indulto.

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