di Stefania Avitabile – Dottoressa in giurisprudenza

Le Sezioni Unite, con la recentissima pronuncia del 17 maggio 2022 n. 15889, esprimendosi in merito alla natura giuridica della comunione de residuo avente ad oggetto l’impresa del coniuge, hanno affermato il seguente principio di diritto: “Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data”

 

La dibattuta questione, rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite con l’Ordinanza interlocutoria n. 28872/2021, sorge dall’assenza di un univoco indirizzo giurisprudenziale relativamente alle distinte impostazioni dottrinali in tema di comunione de residuo.

 

È proprio nell’ambito di tale contrasto tra la tesi che attribuisce al coniuge non imprenditore un diritto di credito, da un lato, e la tesi che invece opta per il riconoscimento di un diritto di compartecipazione alla titolarità dei singoli beni individuali, dall’altro, che si innesta con forza innovativa la sentenza in commento.

 

La comunione de residuo tra coniugi

 

Ai fini di una piena comprensione della pronuncia dalle Sezioni Unite, risulta necessario un breve excursus sulla comunione de residuo.

 

Nel nostro ordinamento giuridico, la comunione legale dei beni costituisce il regime patrimoniale dei coniugi, salvo che essi non decidano diversamente (applicabile altresì alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, per effetto dell’art. 1, comma 13, della legge n. 76/2016, ed è accessibile anche ai conviventi di fatto, a determinate condizioni).

La scelta di tale regime corrisponde alla considerazione della famiglia come consortium omnis vitae, nonché alla specifica esigenza di tutela del coniuge economicamente e socialmente più debole. Sebbene la finalità dell’istituto sia quella di garantire l’uguaglianza delle sorti economiche dei coniugi in relazione agli eventi verificatisi dopo il matrimonio, tuttavia, si evidenzia come il legislatore, contemporaneamente, abbia voluto assicurare al singolo coniuge un adeguato spazio di autonomia nell’esercizio delle proprie attività professionali o imprenditoriali, ed in generale nella gestione dei propri redditi da lavoro come pure dei frutti ricavati dai beni personali.

 

Difatti, accanto ai beni che ricadono in comunione immediata e, pertanto, entrano nel patrimonio comune al momento del loro acquisto, e a quelli che nascono come personali e come tali restano anche una volta cessata la comunione legale, sussiste una serie di beni ricadenti nella c.d. comunione de residuo (l’individuazione dei beni oggetto della cd. comunione de residuo viene tratta dagli articoli 177 lett. b) e c) e 178 c.c.).

Questi beni, pur restando personali durante la vigenza del regime patrimoniale legale, vengono attratti dalla disciplina della comunione legale laddove siano effettivamente e concretamente esistenti nel patrimonio dei coniugi al momento dello scioglimento del matrimonio.

 

Le ragioni alla base della decisione delle Sezioni Unite

 

Le Sezioni Unite, nell’argomentare la propria pronuncia, hanno evidenziato coma “la disciplina dei beni personali e quella specificamente dettata per i beni oggetto della cd. comunione de residuo testimoniano l’evidente emersione, pur all’interno di un regime ispirato alla tutela di esigenze solidaristiche tra i coniugi, della necessità di attribuire rilevanza anche a legittime aspirazioni individuali, che non potrebbero essere del tutto mortificate, e ciò in quanto il matrimonio presuppone comunque il riconoscimento della persona e della sua sfera di autonomia come valore primario che gli istituti giuridici sono chiamati ad attuare, soprattutto ove l’attività individuale si rivolga all’esercizio dell’attività di impresa o professionale”.

Da quanto affermato, dunque, emerge chiaramente la volontà del legislatore di garantire al coniuge imprenditore, finché dura la comunione legale, il potere di gestire dell’impresa, investendo a suo piacimento gli utili e disponendo liberamente dei beni e degli utili aziendali.

 

Sulla base di tali premesse, la Corte ha ritenuto che la questione oggetto dell’ordinanza di rimessione devesse essere decisa optando per la tesi della natura creditizia del diritto nascente dalla comunione de residuo, riconoscendo un diritto di compartecipazione sul piano appunto creditizio, pari alla metà dell’ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo, ovvero del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività.

Questa impostazione, infatti, garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell’autonomia gestionale, evitando un pregiudizio per le ragioni dei creditori e consentendo la sopravvivenza dell’impresa, senza che le vicende dei coniugi abbiano una diretta incidenza sulle sorti della stessa.

L’insorgenza di una comunione anche sui beni mobili ed immobili confluiti nell’azienda, al contrario, comporterebbe una serie di problematiche e pregiudizi, quali:

  • lo scoraggiamento dei creditori nel continuare a riporre fiducia nella gestione successiva allo scioglimento della comunione legale. Ciò perché i terzi che hanno intrattenuto rapporti con l’impresa individuale del coniuge, al momento dello scioglimento della comunione legale, vedrebbero dimidiata la garanzia patrimoniale offerta dai beni, in quanto non più di proprietà esclusiva, ma in comproprietà con l’ex coniuge;
  • la contitolarità sui beni oggetto della comunione de residuo imporrebbe, nella loro successiva gestione, il rispetto delle regole dettate per i beni comuni, con il concreto rischio di paralisi nell’esercizio dell’attività di impresa, anche laddove si reputi che la qualità di imprenditore resti sempre in capo al solo coniuge che l’aveva prima dello scioglimento del regime della comunione legale;
  • l’irrazionalità della tesi della natura reale del diritto, che ricollega un incremento dei legami economici fra i due coniugi proprio al verificarsi di vicende che, secondo la stessa previsione legislativa, ne dovrebbero invece comportare la cessazione;
  • il nocumento all’autonomia e della libertà del coniuge imprenditore derivante dall’automatico passaggio dei beni comuni de residuo, dalla titolarità e disponibilità esclusive, al patrimonio in comunione, con il rischio che la conflittualità tra coniugi possa riverberarsi anche nella gestione e nelle scelte che afferiscano ai beni aziendali caduti nella comunione de residuo;
  • i possibili problemi esiziali per la sopravvivenza dell’impresa derivanti dal carattere ordinario della comunione. Difatti, in assenza di una specifica previsione che contempli una prelazione a favore del coniuge già imprenditore, all’esito della divisione, ove il complesso aziendale non risultasse comodamente divisibile, ben potrebbe verificarsi l’attribuzione dello stesso al coniuge non imprenditore, ovvero, in assenza di richieste in tal senso da parte dei condividenti, si potrebbe addivenire alla alienazione a terzi. Ed ancora, in caso di morte del coniuge non imprenditore, verrebbe a configurarsi la creazione della comunione sui beni di cui all’art. 178 c.c. tra il coniuge imprenditore e gli eredi dell’altro coniuge, che ben potrebbero essere anche estranei al nucleo familiare ristretto;
  • l’inconciliabilità della natura reale del diritto con la previsione secondo cui ricadano in comunione anche gli incrementi, che per la loro connotazione, mal si prestano a configurare una comunione in senso reale sui medesimi;
  • l’inesattezza dell’idea, sostenuta da molti fautori della tesi della natura reale del diritto, che la comunione sorga automaticamente non sull’azienda o sugli incrementi, bensì sul saldo attivo del patrimonio aziendale (o dei suoi incrementi); il saldo attivo del patrimonio aziendale è un’entità astratta che non può riferirsi se non al valore monetario del complesso dei beni che costituiscono l’azienda stessa, dedotte le passività, pertanto ne deriva l’impossibilità di una reale contitolarità di diritti sui beni in oggetto, dovendosi invece propendere per la soluzione che attribuisce al coniuge non titolare del diritto reale una (eventuale, una volta effettuati i dovuti calcoli) pretesa di carattere creditorio.