20 Apr, 2022

Le somme in sequestro vanno svincolate per consentire alla società di pagare le imposte

Di |2022-04-20T18:27:22+02:0020 Aprile 2022|Categorie: Diritto penale, News|

Con una recente sentenza in tema di responsabilità amministrativa degli enti, la Suprema Corte ha stabilito che, pur «nel silenzio del d. lgs. n. 231 del 2001, il dissequestro parziale delle somme in sequestro per pagare il debito tributario debba essere consentito, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata del principio di proporzionalità della misura cautelare, là dove si renda necessario al fine di evitare, per effetto dell’applicazione del sequestro preventivo e dell’inderogabile incidenza dell’obbligo tributario, la cessazione definitiva dell’esercizio dell’attività dell’ente prima della definizione del processo» (Cassazione, Sezione VI Penale, n. 13936 del 2022).

La questione controversa

In via preliminare, la Corte ha richiamato la nozione di profitto oggetto di confisca come ricostruita dalle Sezioni Unite Fisia Italimpianti S.p.a. (Cassazione, Sezioni Unite Penali, n. 26654 del 2008). Per giurisprudenza ormai consolidata, in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato, oggetto della confisca di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001, si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell’ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone.

Pertanto, stando a tale nozione, dal profitto frutto dell’illecito va decurtata l’utilità conseguita dalla controparte, ma non va sottratto l’onere delle imposte che l’ente dovrebbe pagare sui redditi lucrati dalla commissione del reato presupposto.

Senonché, il prelievo fiscale su un ammontare già sottoposto a sequestro ai fini di confisca comporterebbe una duplicazione sanzionatoria a danno della società che potrebbe comprometterne incontrovertibilmente la continuità aziendale. Si tradurrebbe, in altri termini, in una forma di interdizione definitiva dell’attività precedente all’accertamento della responsabilità dell’ente e indipendente dallo stesso.

Si aggiunga, inoltre, che, con riguardo alle persone fisiche, si prevede espressamente che il quantum della confisca del profitto dei reati tributari si riduca per effetto del pagamento del debito tributario.

La soluzione accolta

Sulla scorta di tali considerazione, la Corte ha ritenuto «che, in attuazione del principio di proporzionalità della misura cautelare, il giudice possa autorizzare il dissequestro parziale delle somme sottoposte a sequestro preventivo finalizzato alla confisca per consentire all’ente di pagare le imposte dovute sulle medesime quale profitto di attività illecite, quando l’entità del vincolo reale disposto, pur legittimamente determinato in misura corrispondente al prezzo o al profitto del reato rischi di determinare, anche in ragione dell’incidenza dell’obbligo tributario, già prima della definizione del processo, la cessazione definitiva dell’esercizio dell’attività dell’ente.

In tali specifici casi lo svincolo parziale delle somme sequestrate deve ritenersi ammesso alla stringente condizione della dimostrazione di un sequestro finalizzato alla confisca che, nella sua concreta dimensione afflittiva, metta in pericolo la operatività corrente e, dunque, la sussistenza stessa del soggetto economico e al solo limitato fine di pagare il debito tributario, con vincolo espresso di destinazione e pagamento in forme “controllate”».

 

29 Mar, 2022

La tutela penale del patrimonio culturale

Di |2022-03-29T10:26:56+02:0029 Marzo 2022|Categorie: Diritto penale, News|Tag: , |

E’ entrata in vigore il 23 marzo 2022 la legge 9 marzo 2022 n. 22, recante “Disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 68 del 22 marzo 2022.

Con l’adozione di detta legge il legislatore ha inteso rafforzare, tramite strumenti di diritto penale, la tutela del patrimonio culturale quale bene di rango costituzionale. Invero, l’art. 9 della Carta Costituzionale sancisce che “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura nonché tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione“.

Le modifiche al codice penale

La riforma ha  comportato l’introduzione, all’interno del libro II del codice penale, del titolo VIII-bis, rubricato “Dei delitti contro il patrimonio culturale”, composto degli articoli da art. 518-bis a art. 518-undevicies.

In particolare, sono stati individuati i seguenti illeciti penali:

  • furto di beni culturali;
  • ricettazione di beni culturali;
  • impiego di beni culturali provenienti da delitto;
  • riciclaggio di beni culturali;
  • autoriciclaggio di beni culturali;
  • falsificazione in scrittura privata relativa a beni culturali;
  • violazioni in materia di alienazione di beni culturali;
  • uscita o esportazione illecite di beni culturali;
  • distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici;
  • devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici.

Le fattispecie di reato già previste dal codice dei beni culturali (d.lgs. 42/2004) sono state ricollocate all’interno del codice penale e per le stesse è stato stabilito un innalzamento delle pene edittali, al fine di assicurare ai beni di valore storico e artistico una tutela maggiore rispetto a quella offerta alla proprietà privata.

Con due ulteriori articoli, poi, sono state disciplinate speciali circostanze aggravanti e attenuanti.

In dettaglio, la pena è aumentata da un terzo alla metà quando un reato a tutela del patrimonio culturale:

  1. cagiona un danno di rilevante gravità;
  2. è commesso nell’esercizio di un’attività professionale, commerciale, bancaria o finanziaria;
  3. è posto in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, preposto alla conservazione o alla tutela di beni culturali mobili o immobili;
  4. è realizzato nell’ambito dell’associazione per delinquere di cui all’articolo 416.

Di contro, la pena è diminuita di un terzo quando uno dei menzionati reati cagioni un danno di speciale tenuità ovvero comporti un lucro di speciale tenuità quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità.

Ancora, la pena è diminuita da un terzo a due terzi nei confronti di chi abbia consentito l’individuazione dei correi o abbia fatto assicurare le prove del reato o si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa fosse portata a conseguenze ulteriori o abbia recuperato o fatto recuperare i beni culturali oggetto del delitto.

Inoltre, il legislatore ha modificato l’articolo 240-bis c.p. inserendo taluni reati a tutela del patrimonio tra i delitti in relazione ai quali è consentita la c.d. confisca allargata, ossia la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona, per un valore corrispondente al profitto o al prodotto del reato.

I nuovi reati presupposto della responsabilità degli enti

Da ultimo, la legge di riforma è intervenuta anche sul d.lgs. 231/2001, recante la “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche” derivante da reato, inserendo due nuovi articoli:

  • l’art. 25-septiesdecies, rubricato “delitti contro il patrimonio culturale”;
  • l’art. 25-duodevicies, rubricato “riciclaggio di beni culturali e devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici”.

Ha così ampliato il catalogo dei reati per i quali è prevista la responsabilità amministrativa delle società. Nello specifico, assumono rilievo ex d.lgs. 231/2001, se commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente, i seguenti reati:

  • violazioni in  materia  di  alienazione  di  beni culturali (art. 518-novies c.p.);
  • appropriazione indebita di beni culturali (art. 518-ter c.p.);
  • importazione illecita di beni culturali (art. 518-decies c.p.);
  • uscita o esportazione illecite di beni culturali (art. 518-undecies c.p.);
  • riciclaggio di beni culturali (art. 518-sexies c.p.);
  • distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali e paesaggistici (art. 518-duodecies c.p.);
  • contraffazione di opere d’arte (art. 518-quaterdecies c.p.);
  • furto di beni culturali (art. 518-bis c.p.);
  • ricettazione di beni culturali (art. 518-quater c.p.);
  • falsificazione in scrittura privata relativa a beni culturali (art. 518-octies c.p.);
  • riciclaggio di beni culturali (art. 518-sexies c.p.);
  • devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici (art. 518-terdecies c.p.).

Alla luce delle novità legislative, pertanto, potrebbe risultare necessario apportare modifiche al modello organizzativo eventualmente adottato dalle società ai sensi del d.lgs. 231/2001.

11 Mar, 2022

Diritto al riconoscimento dell’assegno anche dopo il divorzio.

Di |2022-03-11T10:09:40+01:0011 Marzo 2022|Categorie: News|

Successivamente alla pronuncia di divorzio, intercorsa tra i coniugi, colui che in seguito subisce un peggioramento delle proprie condizioni economiche può richiedere che gli venga riconosciuto il diritto all’assegno di mantenimento, anche se in precedenza non lo aveva richiesto e – di conseguenza – non è stato previsto dalla rispettiva pronuncia giudiziale.

L’ordinanza del 24 febbraio n. 5055/2021 della Suprema Corte di Cassazione

Questo principio, è stato affermato dalla Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza del 24 febbraio n. 5055/2021, che ha riconosciuto la suddetta possibilità attraverso l’instaurazione di un procedimento di modifica delle condizioni di divorzio, allorquando l’ex coniuge richiedente abbia subito un peggioramento della propria condizione economica, susseguente la pronuncia stessa di divorzio, tale da non consentirgli di provvedere al proprio mantenimento.

Siffatta richiesta, nonché il suo possibile accoglimento, poggia sull’accertamento circa l’inadeguatezza dei mezzi di sostentamento del richiedente, nonché sulla sua oggettiva impossibilità nel procurarseli, scaturenti da circostanze sopravvenute e non sussistenti al momento del giudizio di separazione.

Tale valutazione, deve essere svolta avendo ben presente quella che è la funzione dell’assegno di mantenimento, quale preminentemente assistenziale, nonché compensativa e perequativa.

Infatti, ai fini della valutazione circa la sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento, si guarda al contributo concretamente fornito dal richiedente in ambito familiare, anche in merito alla formazione del patrimonio comune e a quello del singolo ex coniuge, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto.

Tanto, al fine di verificare quelli che son stati anche i sacrifici sostenuti, dal richiedente, in costanza di matrimonio in favore della realizzazione della famiglia stessa, o dell’altro coniuge, a discapito della propria, talvolta sacrificando le proprie aspettative e crescite professionali.

Un ulteriore sguardo, oltretutto, viene anche rivolto alla funzione sociale a cui l’assegno di divorzio deve necessariamente assolvere, poiché interviene affinché supplisca ai carenti strumenti economici di cui l’ex coniuge dispone e che non gli permettono di condurre una vita sufficientemente dignitosa.

Le condizioni per il riconoscimento dell’assegno di divorzio successivamente alla pronuncia giudiziale

Dunque, affinché si possa riconoscere l’assegno di divorzio successivamente alla pronuncia giudiziale, si guarda alla sussistenza delle seguenti condizioni, in maniera progressiva:

pregresso ruolo endofamiliare del coniuge richiedente

situazione di effettiva e concreta non autosufficienza economica

mancanza di strumenti alternativi di tutela, relativi all’assenza di soggetti legalmente tenuti a ciò o mancanza di forme di sostegno pubblico.

l’ex coniuge, a cui si rivolge la richiesta, sia economicamente in grado di provvedere all’esborso richiesto ed abbia ricevuto, in passato, apporti significativi da parte del richiedente.

Infine, come da recente pronuncia della Cassazione, ordinanza n. 1984 del 2022, il Giudice, in sede di giudizio di revisione, deve verificare quelle che son state le circostanze sopravvenute che oggettivamente hanno condotto ad un’alterazione, in peius, delle condizioni economiche del richiedente, alterandone il precedente equilibrio.

Siffatta valutazione, oltretutto, è la medesima richiesta in sede di revisione del quantum dell’assegno di divorzio anche laddove richiesto e riconosciuto nell’ambito stesso del giudizio divorzile.

25 Feb, 2022

Il reato di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente in ipotesi di affidamento diretto

Di |2022-02-24T12:35:46+01:0025 Febbraio 2022|Categorie: Diritto penale, News|Tag: , , |

La Suprema Corte, con una recente sentenza (Cassazione, Sezione VI Penale, n. 5536 del 16 febbraio 2022 – ud. 28 ottobre 2021), è tornata a occuparsi dei confini applicativi della fattispecie di reato cui all’art. 353-bis c.p. (“turbata libertà del procedimento di scelta del contraente”).

In particolare, la Corte ha affrontato una questione specifica, oggetto negli ultimi anni di pronunce discordi: se il delitto di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente sia configurabile in presenza di un affidamento diretto illegittimamente disposto per effetto della condotta perturbatrice volta ad impedire la gara.

La fattispecie di reato

L’art. 353-bis c.p. è stato introdotto dal legislatore con l’art. 10 della legge 13 agosto 2010, n. 136 (“Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”) al fine di colpire le condotte criminose volte a turbare le fasi preliminari di una gara.

Invero, la norma punisce – con la reclusione da sei mesi a cinque anni e con la multa da € 103 a € 1.032 – “chiunque con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti, turba il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione”.

Il delitto in parola è un reato istantaneo che si consuma nel momento e nel luogo in cui si turba il procedimento amministrativo di scelta del contraente.

La questione controversa

Al fine di definire la condotta tipica del reato, occorre individuare con esattezza il tipo di procedimento amministrativo che assume rilievo, nonché interpretare correttamente il sintagma “contenuto del bando e di altro atto equipollente”.

Stando al dato letterale della norma incriminatrice, la condotta perturbatrice deve essere finalizzata a inquinare il contenuto di un atto che detta i requisiti e le modalità di partecipazione a una competizione per la scelta del contraente.

Esula, quindi, dal perimetro applicativo della disposizione, una condotta volta ad impedire la gara attraverso l’affidamento illegittimo diretto dei lavori che non si realizzi mediante un’azione di alterazione di un bando o di un atto che abbia la stessa funzione.

La soluzione giuridica

Pertanto, la Suprema Corte, in ossequio ai principi di legalità, tipicità e divieto di analogia in malam partem, ha enunciato il seguente principio di diritto:

in caso di affidamento diretto, il delitto previsto dall’art. 353-bis c.p.:

a) è configurabile quando la trattativa privata, al di là del nomen juris, prevede, nell’ambito del procedimento amministrativo di scelta del contraente, una “gara”, sia pure informale, cioè un segmento valutativo concorrenziale;

b) non è configurabile nelle ipotesi di contratti conclusi dalla pubblica amministrazione a mezzo di trattativa privata in cui il procedimento è svincolato da ogni schema concorsuale;

c) non è configurabile quando la decisione di procedere all’affidamento diretto è essa stessa il risultato di condotte perturbatrici volte ad evitare la gara”.

10 Feb, 2022

L’invalidità delle fideiussioni conformi al modello ABI

Di |2022-02-10T12:30:58+01:0010 Febbraio 2022|Categorie: News|

Le Sezioni Unite, con la recente pronuncia del 30 dicembre 2021 n. 41994, hanno posto la parola fine alla dibattuta questione sulla legittimità delle fideiussioni omnibus conformi al modello predisposto dall’ABI (Associazione Bancaria Italiana).

L’annosa questione trae origine dal provvedimento n. 55 del 2005 della Banca di Italia, con il quale è stato dichiarato il contrasto tra l’art. 2 comma 2 lettera a) della L. n. 287/90 (Legge Antitrust) e lo schema contrattuale predisposto dall’ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie, relativamente alle disposizioni contenute agli artt. 2, 6 e 8.

Di Stasio Studio Legale ha mostrato più volte il proprio interesse nei confronti di questa tematica (leggi l’articolo)

Come approfondito in altri articoli, infatti, la materia delle fideiussioni conformi al modello ABI versa in uno stato di confusione a causa dell’evoluzione giurisprudenziale e dei contrasti tra i differenti orientamenti in merito alla sorte dei contratti stipulati a valle, tra banche e clienti, riproduttivi delle clausole previste dall’intesa anticoncorrenziale, a monte, sanzionata dalla Banca d’Italia.

È proprio nell’ambito di questa difformità, dottrinale e giurisprudenziale, in ordine alla tutela da apprestare a favore del cliente–fideiussore, che si innesta la recentissima sentenza delle Sezioni Unite.

A tal riguardo la Suprema Corte, nel pieno espletamento della propria funzione nomofiliattica, ha dettato il seguente principio di diritto: “i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con la L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2, lett. a) e art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi dell’art. 2, comma 3 della Legge succitata e dell’art. 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti“.

Tale pronuncia rappresenta un importante traguardo in quanto, in via definitiva, riconosce la prevalenza della tesi della nullità parziale.

Le fideiussioni, infatti, restano valide ed efficaci, seppur depurate dalle sole clausole riproduttive di quelle dichiarate nulle, in conformità a quanto stabilito dall’art. 1419 c.c.

Da siffatta operazione interpretativa, come affermato dalla stessa Corte di Cassazione, discendono una serie di principi a tutela del garante ossia:

  • la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice della nullità parziale della fideiussione;
  • l’imprescrittibilità dell’azione di nullità;
  • la cumulabilità dell’azione di nullità con la domanda di ripetizione di indebito e di risarcimento del danno;
  • il provvedimento della Banca di Italia del 2005 costituisce prova privilegiata della condotta anticoncorrenziale.
3 Gen, 2022

SFRATTO PER MOROSITÀ. L’ORDINANZA DI RILASCIO, PROVVISORIAMENTE ESECUTIVA, CONSERVA LA PROPRIA EFFICACIA ANCHE SE IL GIUDIZIO SI ESTINGUE.

Di |2021-12-30T09:07:25+01:003 Gennaio 2022|Categorie: News|

Nel mercato delle locazioni immobiliari, sovente accade che il conduttore si renda moroso nel pagamento dei canoni di locazione e che il proprietario dell’immobile sia costretto a ricorrere alla procedura giudiziale di sfratto per morosità al fine di ottenere, oltre ad un’ingiunzione di pagamento nei confronti dell’affittuario per i canoni non pagati, anche un provvedimento avente efficacia di titolo esecutivo che gli consenta di rientrare nella disponibilità del proprio immobile (appartamento, locale commerciale, ecc.).

Quali sono i provvedimenti che, in caso di morosità del conduttore, consentono al locatore di ottenere nuovamente la disponibilità del proprio immobile?
A seguito dell’attivazione, da parte del locatore, del procedimento speciale di sfratto per morosità, vi sono due possibili provvedimenti che integrerebbero un titolo esecutivo idoneo a consentire al proprietario di ottenere nuovamente la disponibilità del proprio immobile.
A. La convalida dello sfratto.
Una prima ipotesi è quella in cui, a seguito dell’intimazione dello sfratto per morosità, il conduttore non compare all’udienza fissata dinanzi al Giudice oppure, anche comparendo, non vi si oppone.
In tale circostanza, il Giudice convalida lo sfratto così come previsto dall’art. 663 del codice di procedura civile.
Detto provvedimento chiude il procedimento e costituisce titolo esecutivo per il locatore che, quindi, potrà rivolgersi all’Ufficiale Giudiziario per ottenere la liberazione dell’immobile nel caso in cui il conduttore non lo faccia spontaneamente.
B. L’ordinanza di rilascio immediatamente esecutiva.
Nel caso in cui, invece, il conduttore compare all’udienza e si oppone all’intimato sfratto, il Giudice, su istanza del locatore e se non sussistono gravi motivi in contrario, può emettere un’ordinanza di rilascio dell’immobile, con riserva delle eccezioni del convenuto, così come previsto dall’art. 665 del codice di procedura civile.
Tale ordinanza è immediatamente esecutiva e, pertanto, anch’essa consentirà al locatore di rivolgersi all’Ufficiale Giudiziario per ottenere la liberazione dell’immobile.
Invece, a differenza dell’ordinanza di convalida dello sfratto che è definitiva e chiude il procedimento, l’ordinanza di rilascio immediatamente esecutiva è “provvisoria”; in quest’ultimo caso, infatti, chiuso il procedimento speciale, si aprirà un’ulteriore fase del processo a cognizione piena e l’ordinanza di rilascio sarà “assorbita” dalla sentenza che definirà il giudizio.

Ma cosa accade se, una volta emessa l’ordinanza immediatamente esecutiva di rilascio dell’immobile, il processo si estingue?
Nell’ipotesi in cui sopraggiunga una causa di interruzione e/o estinzione del processo, è importante stabilire se l’ordinanza di rilascio immediatamente esecutiva conserverà la sua efficacia oppure se sarà anch’essa travolta e caducata dall’estinzione del giudizio.
La questione affrontata da DI STASIO STUDIO LEGALE, con l’avv. Vincenzo D’Amore, riguarda proprio il caso in cui era stata avviata, nell’interesse della società locatrice, l’azione di sfratto da un immobile ad uso commerciale in quanto la società conduttrice si era resa morosa nel pagamento dei canoni.
La società conduttrice era comparsa all’udienza opponendosi alla convalida dello sfratto e il Giudice aveva emesso l’ordinanza di rilascio immediatamente esecutiva con riserva delle eccezioni della convenuta.
L’ordinanza di rilascio veniva eseguita dall’Ufficiale Giudiziario, su istanza dello Studio e nell’interesse della società locatrice che, così, rientrava nella piena disponibilità dell’immobile.
Nel corso del giudizio a cognizione piena, però, interveniva il fallimento della società conduttrice e, pertanto, il Giudice dichiarava interrotto il processo.
A questo punto, si poneva la questione della necessità o meno di riassumere il processo e delle sorti dell’ordinanza di rilascio di cui all’art. 665 del codice di procedura civile: cioè, se detta ordinanza perdesse efficacia in caso di estinzione del processo per la sua mancata riassunzione oppure se, viceversa, anche in caso di estinzione del processo, la detta ordinanza conservasse la propria efficacia.
L’orientamento giurisprudenziale più risalente.
Secondo un orientamento giurisprudenziale minoritario e più risalente, si riteneva che l’ordinanza di rilascio ex art. 665 del codice di procedura civile soggiaceva al regime previsto dall’art. 310 del medesimo codice che, nel disciplinare gli effetti dell’estinzione del processo, sancisce l’inefficacia di tutti gli atti compiuti ad eccezione delle sentenze di merito pronunciate nel corso del processo e di quelle che regolano la competenza.
Secondo tale orientamento, che inquadrava l’ordinanza in questione quale provvedimento di natura cautelare e strumentale rispetto alla sentenza di merito che definisce il giudizio, detta ordinanza non sarebbe stata idonea a dispiegare i propri effetti al di fuori del processo e, pertanto, essa sarebbe rimasta travolta e caducata dalla declaratoria di improcedibilità o, comunque, di estinzione del processo.
Ne conseguiva che il locatore avrebbe perso il diritto di procedere ad esecuzione forzata mentre il conduttore avrebbe avuto diritto alla reviviscenza del rapporto locatizio.
La giurisprudenza più recente e consolidata.
Tale orientamento è stato, in ogni caso, superato dalla più recente e consolidata giurisprudenza che ha affermato il principio secondo cui l’ordinanza di rilascio ex art. 665 del codice di procedura civile, pur se non ha natura di giudicato sostanziale in ordine alla cessazione del rapporto di locazione, comunque non ha natura cautelare né strumentale rispetto alla decisione definitiva di merito.
Per tale ragione, essa non può essere caducata dal provvedimento di estinzione del giudizio.
Difatti, l’ordinanza di rilascio non impugnabile con riserva delle eccezioni del convenuto va inquadrata quale provvedimento sostanziale provvisorio che, accertata la sussistenza dei fatti costitutivi dedotti dal locatore intimante, produce immediatamente effetti nella realtà giuridica sostanziale, riservando le eccezioni proposte dal conduttore al conseguente processo di merito.
Ne discende che estintosi il processo di cognizione ordinaria, continua l’efficacia dell’ordinanza di rilascio con riserva delle eccezioni opposte dal conduttore, il cui esame è stato riservato in quel conseguente processo ordinario.
Pertanto, in caso di estinzione del giudizio per mancata riassunzione davanti al Tribunale competente, l’ordinanza di rilascio conserva la propria efficacia di titolo esecutivo e può essere rimossa soltanto nel caso in cui il convenuto inizi un nuovo giudizio per dimostrare l’infondatezza della pretesa del locatore e far perdere in tal modo il valore di titolo esecutivo al detto provvedimento.
Nel caso specifico e alla luce di quanto innanzi evidenziato, lo Studio, a seguito dell’interruzione del processo per il fallimento della società conduttrice, non ha riassunto il giudizio che, pertanto, è stato dichiarato estinto.
La società proprietaria dell’immobile, tuttavia, stante la permanenza dell’efficacia dell’ordinanza di rilascio ex art. 665 del codice di procedura civile, ha mantenuto la disponibilità del proprio bene riacquisita con l’esecuzione forzata effettuata dall’Ufficiale Giudiziario in forza della medesima ordinanza.

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